mercoledì 28 agosto 2013

Ritornando all'educazione negli oratori.

Ritornando alla prevenzione e ai progetti educativi condotti in contesti informali come gli oratori troviamo ampio spazio dedicato a quelle associazioni che sono accomunate in obiettivi e finalità. Tra queste emerge un'associazione che ha in mano la coordinazione, a livello nazionale, di tutti gli oratori. Stiamo parlando dell'associazione "NOI" (di cui riporto qui sotto un'immagine). Durante il mio tirocinio, di cui vi ho parlato nei primi post ho dovuto, prima di tutto, capire e conoscere la realtà dell'associazione noi. Oggi vorrei, in particola modo, affrontare con voi l'obiettivo e, in un certo senso, la filosofia di questa realtà. Essa introduce l'argomento con domande dirette e sensate:



"Vale ancora la pena educare al giorno d’oggi? Sono ancora valide le agenzie educative tradizionali e i loro metodi? Chi educa realmente?
Questi ed altri interrogativi sono parte di una riflessione più vasta che l’Associazione a tutti i livelli sta portando avanti, per cercare di dare una risposta strutturata e credibile. 
Il dato di partenza reale è che molte Parrocchie o Diocesi stanno valutando l’opportunità di affidare la responsabilità dell’Oratorio ad una figura laica. Questo ambiente esige adulti/ educatori particolarmente attenti e preparati, consapevoli della missione e capaci di interagire con molte realtà diverse.
Un responsabile di Oratorio dovrebbe vivere a stretto contatto con la vita e gli interessi dei giovani, un credente che può abilitarsi anche all’accompagnamento spirituale, nella misura in cui sa rielaborare le motivazioni profonde della sua fede e si abilita alla comunicazione1.
E’ evidente che non sarà l’unico responsabile di tale accompagnamento, ma saprà orientare, sostenere, suggerire i riferimenti utili che i giovani possono trovare nell’ambiente.
Mai come nel nostro tempo c’è bisogno di persone capaci di ascoltare e accogliere. L’Oratorio è un ambiente informale, che non chiude le porte a nessuno, pur vigilando sul clima positivo e sereno. Le competenze relazionali proprie di una persona matura comportano l’acquisizione di una profonda attitudine all’ascolto, che scaturisce dalla capacità di osservare i comportamenti, di decifrarli nei processi educativi.
Il responsabile dell’Oratorio è una figura importante nell’organigramma di una comunità presente. A lui è richiesto non di essere un esecutore, ma un membro vivo, corresponsabile sia all’interno della comunità, che all’esterno, rispetto alla società, alle istituzioni pubbliche e private.
E’ una persona a cui si chiede un servizio delicato, profondamente inserito nella missione e nella responsabilità della chiesa nei confronti delle giovani generazioni2. Da loro dipende il futuro. Non possiamo dunque non essere solleciti per la formazione delle nuove generazioni, per la loro capacità di orientarsi nella vita e di discernere il bene dal male, per la loro salute non soltanto fisica ma anche morale.
Educare però non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile.
Un’autentica educazione ha bisogno anzitutto di quella vicinanza e di quella fiducia che nascono dall’amore: basta pensare a quella prima e fondamentale esperienza dell’amore che i bambini fanno con i loro genitori3. Ma ogni vero educatore sa che per educare deve donare qualcosa di sé stesso e che soltanto così può aiutare i suoi allievi a superare gli egoismi e a diventare a loro volta capaci di autentico amore.
Bisogna trovare però un giusto equilibrio tra la libertà e la disciplina. Man mano che il bambino cresce, diventa adolescente e poi giovane; dobbiamo dunque accettare il rischio della libertà, rimanendo sempre attenti ad aiutarlo a correggere idee e scelte sbagliate.
Quelle che invece non bisogna mai fare è assecondarlo negli errori, fingere di non vederli, o peggio condividerli, come se fossero le nuove frontiere del progresso umano. L’educazione non può dunque fare a meno di quell’autorevolezza che rende credibile l’esercizio dell’autorità.
Essa è frutto di esperienza e competenza, ma si acquista soprattutto con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale, espressione dell’amore vero.
L’educatore è quindi testimone della verità e del bene.
È decisivo il senso di responsabilità.
La responsabilità è in primo luogo personale, ma c’è anche una responsabilità che condividiamo insieme, come membri della famiglia umana.
C’è bisogno del contributo di ognuno di noi perché la società diventi un ambiente più favorevole all’educazione4."


E’ a partire da queste riflessioni che NOI Venetovuole costruire forse più un percorso che delle soluzioni pronto-uso, consci del fatto che la realtà dei Circoli in Veneto è quanto mai variegata ed eterogenea. Un cammino non certo semplice e neppure di breve durata, ma ora e più che mai irrinunciabile.


domenica 25 agosto 2013

La relazione educativa con finalità preventive.

L'intervento di prevenzione, inteso come trasmissione di informazioni, riduzione dei fattori di rischio, promozione del benessere o cambiamento di prospettiva avviene neccessariamente all'interno di un contesto relazionale. La relazione è unica dimensione attraverso cui l'intenzionalità dell'operatore può divenire processo e produrre un esito nel destinatario dell'intervento. Laddove essa non vi sia, non esiste possibilità di interazione e, di conseguenza cambiamento. (Tramma, 2003); di qui l'importanza della concretezza e della continuità del rapporto, il "vivere" e il "fare" con il soggetto.
La relazione, come contesto vitale dell'azione preventiva, nel quale si realizza l'interazione fra l'operatore che "fa" prevenzione e il destinatario, che "subisce" in una dinamica di co-costruzione, è inoltre primariamente "educativa" poiché presuppone la tradizione operativa di una progettualità ben precisa, un processo intenzionale dell'educatore "su" e "con" l'educando.

giovedì 22 agosto 2013

Gli anni '80 e la prevenzione nella prospettiva PROMOZIONALE.

A partire dagli anni ottanta si inizia a ripensare ai programmi di prevenzione: al contenuto specifico che li aveva a lungo caratterizzati, si sostituisce un orizzonte più ampio, il benessere e la salute del soggetto intesi come prodotto della qualità della vita e delle interazioni con l'ambiente e con gli altri. Alla centratura rappresentata dalle singole forme di disagio, si sostituiscono obiettivi di promozione del benessere  e di educazione alla salute, da perseguire in modi diversi e con strategie differenti, che obbligano l'operatore e il sistema d'intervento a ripensare strumenti e metodologie.
A passaggio di informazione di affianca quindi un lavoro sugli stili di vita, sulla formazione delle competenze personali e collettive, sull'ambiente naturale e sociale, in un processo che coinvolge anche aspetti emotivi e affettivi. Rientrano in questa prospettiva i programmi di prevenzione che sfruttano, quale base di intervento, i meccanismi di:
- Rafforzamento e promozione delle abilità personali e sociali.
- Educazione tra pari
- Sviluppo di competenze di comunità.
Si tratta di interventi non specificamente rivolti alla prevenzione dell'uso di sostanze, ma attenti alla sfera emotiva e focalizzati sullo sviluppo della persona nel suo complesso.

L'esortazione allarmistica: un modello di prevenzione degli anni sessanta.

La prima fase dell'evoluzione delle strategie preventive si è quindi tradotta soprattutto in iniziative ispirate a un approccio esortativo-dissuasivo: interventi "terroristici", con l'utilizzo di linguaggi e di materiale dal forte impatto negativo, nell'intento di generare timore e rifiuto nei confronti di un comportamento ritenuto deviante. I messaggi preventivi di tono minaccioso, che sfruttano l'induzione di sentimenti di ansia e di paura, possono però determinare reazioni che ostacolo l'assimilazione del contenuto. Ricerche condotte a partire dagli anni cinquanta hanno dimostrato che la sollecitazione di sentimenti di paura rappresenta una leva di comportamento efficace solo quando essi hanno un'intensità debole; quando invece hanno un'intensità forte, l'effetto provocato rischia di tradursi in una maggiore tensione emotiva, a cui però non corrisponde un cambiamento di comportamento nella direzione auspicata. La teoria della dissonanza cognitiva di Festinger sottolinea, infatti, che gli individui cercando di ridurre il disagio interiore provocato dalle incoerenze fra credenze già in loro possesso e le nuove informazioni ricevute. Un intervento informativo che voglia ottenere i risultati educativi, in termini di consapevolezza, deve evitare la dissonanza cognitiva. L'esasperazione dei pericoli conessi con alcuni comportamenti, poi, se da un lato può rafforzare la tendenza a evitare l'adozione da parte degli individui che comunque se ne sarebbero astenuti, dall'altro rischia di stimolare il passaggio dalla sperimentazione sporadica alla condotta abituale, nella convinzione di aver infranto un tabù e di aver imboccato un percorso irreversibile.

lunedì 19 agosto 2013

Prevenire o curare: comunità e l'educazione di strada a confronto

 L’inserimento in comunità è previsto sia per i soggetti a rischio psicosociale, sia per i soggetti che sono già entrati nel circuito penale.
L'’allontanamento dai contesti abituali, è stabilito sulla base del principio della protezione del minore e non dal minore. In tal senso, la residenzialità consente di lavorare sulla funzione strutturante delle routine quotidiane e su quella contenitiva della relazione con gli educatori.
I principi pedagogici di base che regolano la comunità, sono essenzialmente: la vita quotidiana come contesto educativo, l’equilibrio tra rapporto individualizzato e dinamiche relazionali di gruppo (Coraglia, Garena, 1988; Cialabrini, Massa, 1973). La vita residenziale non è vista come puro contenitore o appoggio al ragazzo, ma come la reale chiave di volta dell'’intervento educativo.
Accoglimento, sostegno, contenimento, mediazione con ambienti non protetti (la scuola, i familiari), condivisione di esperienze attuali, progetti futuri, nuove opportunità di relazione, dovrebbero caratterizzare la vita del ragazzo in comunità.
Attualmente, sembra che la formula più indicata per interventi di tipo preventivo/rieducativo, sia la comunità con un numero di ospiti non superiore alle dieci unità. Le dimensioni contenute del gruppo di residenti, consentono, infatti, l’instaurarsi di significative relazioni faccia-a-faccia e la costruzione di una nuova storia condivisa e significativa fatta di rituali della vita quotidiana, ma anche di eventi salienti, tutte precondizioni per l’instaurarsi di nuovi modi di agire e di pensare.



Per quanto riguarda, invece, l'’educazione di strada, in Italia, la figura professionale dell'’educatore di strada, acquista sempre maggior rilevanza sia sul piano della riflessione pedagogica che su quello della progettazione di interventi. In alcune città (Palermo, Torino, Milano, Bologna, Napoli), sono in atto modelli di intervento formulati intorno a quest'’idea. L'’idea di fondo, è l’inversione di direzione: non è il minore che va o è condotto al servizio sociale, è il servizio che va verso il minore e lo incontra o lo aggancia là dove si trova. Ciò consente di raggiungere utenti che forse non avrebbero mai incontrato i servizi e che spesso sono quelli che ne hanno maggiore bisogno.

I presupposti sono quelli della pedagogia territoriale, particolarmente indicati ad orientare l’intervento educativo in ambiti in cui la devianza ha o rischia di avere carattere strutturale e non occasionale, in quanto sostenuta e legittimata dal tessuto sociale e dalla cultura locale (Demetrio, 1995, pagg.48-54).

sabato 17 agosto 2013

Tempistiche e progetti.

I tempi dell’'intervento educativo, inteso come processo di costruzione identitaria, come un’opportunità di crescita che punta al cambiamento, si collocano sul medio-lungo termine.
Questa, è un’indicazione che si scontra ovviamente con il problema delle risorse destinate ai servizi sociali.
Molti progetti, sia preventivi sia rieducativi, falliscono per una contrazione eccessiva dei tempi che non risponde a parametri pedagogici, ma squisitamente economici.
Così, i tempi dello sviluppo e del cambiamento di un’identità si traducono in costi.



Alcuni fattori, hanno quindi contribuito ad orientare verso la territorializzazione dei servizi educativi: le conseguenze devastanti dell'istituzionalizzazione, la necessità di rispondere in termini di servizi alle misure alternative alla detenzione previste dal nuovo codice di procedura penale minorile, la necessità di prendere in carico i minori a “rischio”.

Da questo punto di vista, hanno acquistato sempre maggiore rilevanza sociale e interesse scientifico due luoghi/modi dell’intervento preventivo/educativo: la comunità e la strada.

lunedì 12 agosto 2013

Se l’educatore riesce ad inserirsi allora...

Dal punto di vista dell'educando, il progetto educativo inteso e tradotto come norme e regole diventa un vero e reale quadro di riferimento: orienta, sostiene e contiene reazioni e comportamenti.
La costruzione delle esperienze orientate al cambiamento e dell’identità si collocano oltre la prima formazione.
Questo processo di cambiamento è destinato a soggetti che hanno già vissuto esperienze e sedimentato vissuti. Nel corso della propria storia, il minore ha avuto modo di consolidare alcuni schemi di significato che egli sente propri e spesso per nulla disadattivi. Introiettati e difesi come propri, essi possono avere maggiore o minore grado di stabilità e strutturazione in base alle esperienze vissute e alla loro stereotipia. L’intervento rieducativo costruisce contesti ed esperienze nuovi o differenti da quelli che hanno caratterizzato l’ambiente del ragazzo o propri della sua formazione.
Entro questi contesti e attraverso essi, il minore ha l’opportunità di sperimentare differenti figure e differenti modalità di essere percepito e trattato dagli adulti di riferimento, differenti aspettative e reazioni al suo comportamento, nuovi stimoli ed opportunità d’azione, nuove forme di comunicazione interpersonale.
L'’educatore sostiene il minore e lo accompagna in queste esperienze, fornendo supporti ma senza sostituirsi a lui. La condivisione di spazi, tempi, attività e momenti della vita quotidiana ha un duplice scopo. In primo luogo, consente all’educatore di conoscere a poco a poco le categorie attraverso cui il minore interpreta e fa fronte alla sua realtà quotidiana.
In che modo percepisce la famiglia, la scuola, l’educatore stesso' Osservando come il minore interagisce e fa fronte ai compiti e alle situazioni quotidiane e interagendo con lui, l’educatore può comprendere la chiave interpretativa del suo mondo in modo più preciso che attraverso colloqui istituzionalizzati.In secondo luogo, se l’educatore riesce ad inserirsi o a costruire un micro-ordine della vita sociale, egli ha maggiori ambiti d’intervento. E’ condividendo ritmi, attività, luoghi della vita quotidiana che l’educatore può trasformare quest’ultima in un ambiente più protetto e controllato entro cui il minore può sperimentare nuovi modi di conferire ordine e dotare di senso la realtà.
Naturalmente, la condivisione della vita quotidiana assume forme differenti se l’intervento educativo si svolge in strutture diverse (carcere, comunità residenziali) o se esso si articola in forme di educazione di strada o di progetti. Nella progressiva ridefinizione dell’identità personale, l’esperienza del gruppo rappresenta il contesto di costruzione o rielaborazione delle competenze sociali. Alcuni dispositivi che caratterizzano la vita di gruppo (il senso d’appartenenza, la complementarietà dei ruoli, la competitività, la cooperazione, istituzione di norme e sanzioni) possono tradursi in altrettante risorse formative.
 La rete di relazioni del minore, dovrebbe ampliarsi oltre le figure di adulti aventi ruoli professionali ben definiti.

 L’educatore può inserirsi all’interno di gruppi naturali o aggregazioni spontanee contribuendo a ridefinirne dinamiche interpersonali e valori, facendo anche in modo che il gruppo contenga, risolva e riassorba i suoi membri devianti perché non si creino le condizioni per la riedizione di meccanismi di esplulsione che molti ragazzi potrebbero aver già subito in altri luoghi e in altri momenti.