giovedì 22 agosto 2013

Gli anni '80 e la prevenzione nella prospettiva PROMOZIONALE.

A partire dagli anni ottanta si inizia a ripensare ai programmi di prevenzione: al contenuto specifico che li aveva a lungo caratterizzati, si sostituisce un orizzonte più ampio, il benessere e la salute del soggetto intesi come prodotto della qualità della vita e delle interazioni con l'ambiente e con gli altri. Alla centratura rappresentata dalle singole forme di disagio, si sostituiscono obiettivi di promozione del benessere  e di educazione alla salute, da perseguire in modi diversi e con strategie differenti, che obbligano l'operatore e il sistema d'intervento a ripensare strumenti e metodologie.
A passaggio di informazione di affianca quindi un lavoro sugli stili di vita, sulla formazione delle competenze personali e collettive, sull'ambiente naturale e sociale, in un processo che coinvolge anche aspetti emotivi e affettivi. Rientrano in questa prospettiva i programmi di prevenzione che sfruttano, quale base di intervento, i meccanismi di:
- Rafforzamento e promozione delle abilità personali e sociali.
- Educazione tra pari
- Sviluppo di competenze di comunità.
Si tratta di interventi non specificamente rivolti alla prevenzione dell'uso di sostanze, ma attenti alla sfera emotiva e focalizzati sullo sviluppo della persona nel suo complesso.

L'esortazione allarmistica: un modello di prevenzione degli anni sessanta.

La prima fase dell'evoluzione delle strategie preventive si è quindi tradotta soprattutto in iniziative ispirate a un approccio esortativo-dissuasivo: interventi "terroristici", con l'utilizzo di linguaggi e di materiale dal forte impatto negativo, nell'intento di generare timore e rifiuto nei confronti di un comportamento ritenuto deviante. I messaggi preventivi di tono minaccioso, che sfruttano l'induzione di sentimenti di ansia e di paura, possono però determinare reazioni che ostacolo l'assimilazione del contenuto. Ricerche condotte a partire dagli anni cinquanta hanno dimostrato che la sollecitazione di sentimenti di paura rappresenta una leva di comportamento efficace solo quando essi hanno un'intensità debole; quando invece hanno un'intensità forte, l'effetto provocato rischia di tradursi in una maggiore tensione emotiva, a cui però non corrisponde un cambiamento di comportamento nella direzione auspicata. La teoria della dissonanza cognitiva di Festinger sottolinea, infatti, che gli individui cercando di ridurre il disagio interiore provocato dalle incoerenze fra credenze già in loro possesso e le nuove informazioni ricevute. Un intervento informativo che voglia ottenere i risultati educativi, in termini di consapevolezza, deve evitare la dissonanza cognitiva. L'esasperazione dei pericoli conessi con alcuni comportamenti, poi, se da un lato può rafforzare la tendenza a evitare l'adozione da parte degli individui che comunque se ne sarebbero astenuti, dall'altro rischia di stimolare il passaggio dalla sperimentazione sporadica alla condotta abituale, nella convinzione di aver infranto un tabù e di aver imboccato un percorso irreversibile.

lunedì 19 agosto 2013

Prevenire o curare: comunità e l'educazione di strada a confronto

 L’inserimento in comunità è previsto sia per i soggetti a rischio psicosociale, sia per i soggetti che sono già entrati nel circuito penale.
L'’allontanamento dai contesti abituali, è stabilito sulla base del principio della protezione del minore e non dal minore. In tal senso, la residenzialità consente di lavorare sulla funzione strutturante delle routine quotidiane e su quella contenitiva della relazione con gli educatori.
I principi pedagogici di base che regolano la comunità, sono essenzialmente: la vita quotidiana come contesto educativo, l’equilibrio tra rapporto individualizzato e dinamiche relazionali di gruppo (Coraglia, Garena, 1988; Cialabrini, Massa, 1973). La vita residenziale non è vista come puro contenitore o appoggio al ragazzo, ma come la reale chiave di volta dell'’intervento educativo.
Accoglimento, sostegno, contenimento, mediazione con ambienti non protetti (la scuola, i familiari), condivisione di esperienze attuali, progetti futuri, nuove opportunità di relazione, dovrebbero caratterizzare la vita del ragazzo in comunità.
Attualmente, sembra che la formula più indicata per interventi di tipo preventivo/rieducativo, sia la comunità con un numero di ospiti non superiore alle dieci unità. Le dimensioni contenute del gruppo di residenti, consentono, infatti, l’instaurarsi di significative relazioni faccia-a-faccia e la costruzione di una nuova storia condivisa e significativa fatta di rituali della vita quotidiana, ma anche di eventi salienti, tutte precondizioni per l’instaurarsi di nuovi modi di agire e di pensare.



Per quanto riguarda, invece, l'’educazione di strada, in Italia, la figura professionale dell'’educatore di strada, acquista sempre maggior rilevanza sia sul piano della riflessione pedagogica che su quello della progettazione di interventi. In alcune città (Palermo, Torino, Milano, Bologna, Napoli), sono in atto modelli di intervento formulati intorno a quest'’idea. L'’idea di fondo, è l’inversione di direzione: non è il minore che va o è condotto al servizio sociale, è il servizio che va verso il minore e lo incontra o lo aggancia là dove si trova. Ciò consente di raggiungere utenti che forse non avrebbero mai incontrato i servizi e che spesso sono quelli che ne hanno maggiore bisogno.

I presupposti sono quelli della pedagogia territoriale, particolarmente indicati ad orientare l’intervento educativo in ambiti in cui la devianza ha o rischia di avere carattere strutturale e non occasionale, in quanto sostenuta e legittimata dal tessuto sociale e dalla cultura locale (Demetrio, 1995, pagg.48-54).